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La foresta d’acqua, di Kenzaburō Ōe

La foresta d'acqua

«Cascate di pioggia incessante avevano impregnato le foglie degli alberi di una quantità d’acqua tale che l’intera foresta aveva assunto la profondità e la fluidità di un grande oceano»

La foresta d’acqua (Suishi, 2009) è l’ultimo romanzo di Kenzaburō Ōe arrivato in Italia, appena pubblicato da Garzanti. Fin dalle prime pagine ci si trova davanti a un’opera molto matura, che appare come profondamente metanarrativa. Il narratore e protagonista, Choko Kogito, è l’alter ego per eccellenza dell’autore giapponese, vincitore del Nobel per la Letteratura nel 1994, ed è appunto a sua volta uno scrittore. La narrazione si apre con un flashback che racconta le origini di questa passione, nata quasi a seguito di alcune parole pronunciate dalla madre in un giorno di tanti anni prima: «Se non riuscirà a trovare un buon lavoro, male che vada farà lo scrittore! […] In effetti, già solo nella nostra valigia di pelle rossa c’è materiale a volontà per scrivere un romanzo». A quell’epoca Kogito era solo un ragazzo ma quelle parole si impressero in lui con una forza che non gli avrebbe lasciato scampo. 

Anni dopo, al tempo del racconto, ci troviamo davanti allo scrittore in età avanzata, ormai affermato e anziano, che in un qualche modo cerca di dare seguito a un proposito nato appunto decenni addietro: scrivere un romanzo che narri le vicende legate al padre traendo materiale da quella valigia rossa che dovrebbe contenere tutte le informazioni che gli sono state negate in passato. Proprio per questo tornerà alla casa nella foresta, antica dimora di famiglia, per trovare ciò che cerca. 

L’ossessione del protagonista per la storia paterna si è sviluppata attorno a una drammatica vicenda della sua infanzia, che si è ripercossa in un sogno ricorrente che lo ha accompagnato per tutta la vita: in una notte di tempesta il padre, Choko sensei, si trova su una barca nel fiume in piena, suo figlio lo sta aiutando, ma improvvisamente la furia delle acque lo trascina via, portandolo ad annegare. Da qui forse la foresta d’acqua del titolo, un crocevia di elementi che si incrociano nei ricordi e nell’inconscio del protagonista. 

Kenzaburō Ōe in questo romanzo mette in scena la disperata ricerca del proprio posto nel mondo, dei ruoli che dobbiamo vivere e del modo di agire rispettandoli, per rendere giustizia alla nostra storia. A partire dalla propria identità di figlio l’autore si interrogherà circa il proprio essere padre, attraversando una sorta di discesa agli inferi volta a risalire alle radici del proprio sé. 

«A distanza di decenni, nel pieno di uno dei miei accessi di “ipermemoria”, presi una scheda e scrissi: “Amo mio padre disperatamente”. E un attimo dopo, seppure in quello stato di profonda commozione, aggiunsi in piccolo in inglese “desperately” e pronunciai lentamente a fior di labbra ogni sillaba di quella parola».

La foresta d’acqua è anche un racconto sulla memoria, una memoria consapevolmente ricostruita a seguito di anni di rielaborazioni e rappresentazioni più o meno inconsce. I personaggi del romanzo, che emergono con forza dalle pagine, porteranno mano a mano il protagonista a rivivere ricordi prima di allora perduti. Fondamentale per questo sarà l’incontro con il Caveman group, gruppo teatrale che si propone di mettere in scena i romanzi dell’anziano scrittore, e con l’affascinante Unaiko, donna che sfida le convenzioni sociali con la propria arte.

«Eppure, proprio perché ritenevo che la mia lucidità fosse a rischio e avesse i giorni contati, mi sentivo più che mai in dovere di prestare attenzione alla recente ondata di ricordi, che sembrava volermi comunicare qualcosa prima che fosse troppo tardi». 

Un romanzo, questo di Kenzaburō, complesso e articolato, quasi totalizzante per la forza con cui trascina il lettore nella casa della foresta con i personaggi del racconto. Tra queste pagine si vive un percorso verso l’intimità e la fragilità tutta umana dello scrittore giapponese, che riesce a farsi universale attraverso una serie di simboli che risuonano come familiari, anche se iscritti in una cultura ricca di rituali e leggende molto lontane dalle nostre. 

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