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Flannery O’Connor e la fame insaziabile

«Lo zio di Francis Marion Tarwater era morto da appena mezza giornata quando il ragazzo si ubriacò troppo per finire di scavare la fossa, e così toccò a un negro di nome Buford Munson, che era venuto a farsi riempire una brocca, completare l’opera, trascinando il cadavere dal tavolo della colazione dov’era ancora seduto per dargli una degna e cristiana sepoltura, piantando le insegne del Salvatore in testa alla tomba e ricoprendola di una quantità di terra sufficiente a evitare che i cani lo disseppellissero. Buford era arrivato pressappoco a mezzogiorno e quando se ne andò, al tramonto, il ragazzo, Tarwater, non era ancora tornato dalla distilleria.»

C’è un qualcosa nel Cielo è dei violenti che si muove al di sotto dell’apparenza, rosicchiando, da dentro, la scrittura stessa di Flannery O’Connor. È una sorta di vuoto che avvolge tutti i personaggi, che li muove verso il desiderio, inappagabile, di riempire una mancanza profonda. Si tratta di una fame inestinguibile. Una fame ovviamente metaforica che trova però svariate allegorie all’interno della narrazione:

«Il ragazzo sapeva che era proprio questo il cuore pulsante della follia del prozio, la fame, e il suo terrore più grande e segreto era che potesse essere ereditaria, che scorresse nel sangue e che quindi, un giorno, gli sarebbe esplosa nelle vene; e quindi anche lui sarebbe stato dilaniato dalla fame come il vecchio, lo stomaco eternamente inappagato, senza che niente riuscisse a guarirlo o saziarlo fuorchè il pane della vita.»

Flannery O'Connor - Il cielo è dei violentiLa trama di questo romanzo, il secondo scritto da Flannery O’Connor, potrebbe colpire per la semplicità, ancorché intervallata da qualche momento finemente surreale, e pure raccontarla potrebbe andare a «dissiparne l’inganno» come sostiene Missiroli nell’introduzione. Basti sapere che il giovane Francis Tarwater, strappato dalle cure di un zio adottivo, è stato allevato da un prozio convinto di essere un profeta e di dovere crescere allo stesso modo il ragazzo. La narrazione si apre con la morte del prozio, evento che darà inizio al viaggio del protagonista. Il dualismo tra fede e ragione gioca un ruolo preminente, ma si tratta di un conflitto che riguarda più la percezione di un credo personale che non la liturgia. I personaggi si muovono tutti spinti da quel vuoto che si citava sopra, in ognuno di loro è stato deposto un seme che alcuna scelta è in grado di estirpare. 

Il giovane Tarwater deve decidere quale strada percorrere: seguire gli insegnamenti religiosi del prozio o la razionalità illuministica esemplificata dallo zio, maestro e studioso? Quale valore può avere il battesimo in questo contesto?

Ovviamente Flannery O’Connor non risponde a nulla di tutto questo, ci pone davanti un’opera definitiva, crudele e inesorabile, scritta mentre era anch’ella divorata da un male interiore che l’avrebbe condotta a una morte prematura. Profondamente religiosa, questa grande autrice del Sud, erede di Faulkner, massima espressione di quello che viene a volte chiamato il Gotico Sudista, mette su carta un dialogo eterno a tu per tu con alcuni dei grandi quesiti umani. Forza, fame, violenza, male, preghiera: tutto ciò gioca un ruolo in questo romanzo che, per usare le parole di Luca Briasco, si legge come sotto «l’influsso di un incantamento», malia che non abbandona il lettore una volta girata l’ultima pagina. 

C’è ovviamente l’America in queste pagine, quella della disillusione e del nichilismo diffuso, della mancanza di certezze e di profonda solitudine di fronte al mondo. 

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